skip to Main Content

Paragoni azzardati.

 

«…Abbiamo perseguito una strategia deliberata volta a ridurre i costi salariali gli uni rispetto agli altri e, combinando ciò con una politica fiscale prociclica, l’effetto netto è stato solo quello di indebolire la nostra domanda interna e minare il nostro modello sociale…»), oggi è stata la volta di un editoriale di Mario Draghi sull’autorevole Financial Times in cui sostiene la necessità di un «cambiamento radicale» in tutte le scelte di politica economica che hanno condotto la Ue ad essere quello che è: il campione mondiale di burocrazia, regolamentazione e debolezza della domanda interna, al punto che il mercato interno (vanto della UE) perde i pezzi (Start Magazine).

Nelle parole di Mario Draghi, convinto europeista e certamente fautore del multilateralismo, qualcuno ha visto, maliziosamente, uno stretto parallelismo con le parole di quel signore con la barba che fa il vice-presidente degli Stati Uniti: e visto quanto combina, sbraita e firma il suo capo, avrà ben pensato di non potersi esimere.
La differenza fondamentale non è semplicemente di tipo culturale, ovvero di visione del mondo e delle cose, la differenza vera consiste nell’approccio alla questione: io ho il potere e ti dico dove sbagli e quello che devi fare se vuoi lavorare con me; io credo nell’Unione Europea ma penso che vada profondamente riformata e voglio lavorare per questo.

Mario Draghi, peraltro, non aveva atteso di essere intervistato dal Financial Times per affermare cose che da sempre afferma, sin da quando era Governatore di Banca d’Italia fino a giungere prima al vertice BCE per poi divenire, purtroppo per un tempo troppo breve, Presidente del Consiglio. La questione dei bassi salari e della debolezza della domanda interna, fenomeno visibile in quasi tutta l’Europa, nel nostro Paese viene accentuata da una spiccata vocazione all’export (ci sarebbe da scrivere un libro sui nostri rapporti di subfornitura “poveri” con la Germania) e dalla propensione al risparmio, oltre che dall’elevata imposizione fiscale.

La mancanza ormai trentennale di una politica industriale ha giustificato i bassi salari e un modello di sviluppo dove una quota significativa del PIL appartiene proprio a quei settori (turismo e ristorazione) dove le retribuzioni modeste sembrano essere la regola e non l’eccezione, unitamente all’evasione fiscale e contributiva.
Per cui, in Europa qualcuno produce (o produceva) manufatti, qualcun altro -l’Italia- contribuiva con la subfornitura ad una catena del valore tale per cui l’unico motivo per venire nel nostro Paese erano e sono le vacanze.
Il sovranismo non ci farà uscire da tutto questo: così come non ci farà uscire l’appeasement che fa pericolosamente rassomigliare la conferenza di Monaco 2025 a quella del 1938. Zio Adolfo, in arte Fuhrer, non c’è più, ma c’è chi gli crede ancora. E personaggi come Orban o le sue caricature italiane non fanno altro che dare spazio a concezioni della democrazia davvero distanti da quelle cui siamo abituati da 80 anni, che dovrebbero farci riflettere sul fatto che non c’è democrazia economica senza una vera democrazia liberale.

Infine, un’ultima annotazione: da sempre la polemica sui bassi salari si accompagna a quella sulla produttività, che sarebbe, nel nostro Paese, più bassa che altrove. Sarà.
Una domandina a tutti quelli che giustificano i bassi salari però la farei: come mai è precipitata la spesa per l’acquisto di robot e di macchine utensili?

P.S.: il Presidente dell’ABI; Patuelli, si è dichiarato, bontà sua, pronto a fare la sua parte, concedendo maggior credito alle imprese.
Il problema, come sempre, è e sarà per fare cosa.