E così accade che mi chiami un amico, che lavora in una banca di prossimità,…
Camminare sulle uova.
Impresa assai ardua quella che si presenta nella foto, ma ancora di più, a quanto pare quella di chi deve risolvere conflitti generazionali all’interno dell’impresa. Non so se si tratti dell’età (siamo tutti boomer, coloro che mi chiamano, mai come in questo periodo, per svolgere la funzione salomonica del saggio e ovviamente il sottoscritto è boomer pure lui) o di qualcos’altro, per esempio il fatto che a un certo punto le questioni sopite riemergono e devi farci i conti: alla fine sono questioni che devi risolvere o l’azienda si disintegra. Ben lo sapeva l’Avvocato che prima di volare in Cielo ha messo a posto la gerarchia e assegnato i gradi. Non è scontato: il Cav. lo ha fatto, Leonardo Del Vecchio a quanto pare no.
Non tutti hanno la preveggenza dell’Avv. e soprattutto non tutti hanno i soldi per avere un avvocato d’affari in casa o per pagarsi una parcella di qualcuno, per esempio, che siede nel CdA di Mediobanca proprio per la sua grande sapienza, bravura e capacità di equilibrio.
Come fare in questi casi, cosa dire? Qual è il criterio per rendere giustizia a tutti e tenere in piedi l’azienda? Non perché la si debba tenere in piedi a tutti i costi, non è scritto nei comandamenti: ma perché l’azienda è un valore in sé, ha una storia, un sapere, relazioni, rapporti che non sono commerciali, famiglie e talvolta territori che vivono grazie a lei.
Si può dire?
Diciamolo.
L’azienda è nostra ma non ci appartiene.
Concetto di non facile comprensione per un capitalismo che, almeno nel nostro Paese, nasce “straccione”, ovvero senza capitale di rischio, pieno di debiti e, ai piani superiori, nelle mani di grandi artisti di scambi azionari dove di flussi di cassa se ne vedevano ben pochi (Enrico Cuccia con la sua Mediobanca fece tutto ciò per molti anni, tentando anche operazioni che servivano proprio a creare aggregazioni per fare andare –sperabilmente– meglio le aziende interessate: vedi la poi abortita operazione “Supergemina”). Insomma, quel che ho me lo tengo, anche se sono pieno di debiti, confermando in pieno l’ordine di preferenze à la Myers nel decidere la struttura finanziaria: ma soprattutto, guai a toccare gli assetti proprietari-familiari.
Un breve aneddoto per capire: molti anni fa mi capitò di dovermi interessare di una media impresa dove i molti soci litigavano tra loro per la situazione di difficoltà causata da operazioni avventate. Chiamato, come si suol dire, al capezzale dell’ammalato, prima ancora di parlare di conti posi loro una domanda che oltre un decennio dopo, non ha mai avuto risposta: cosa volete fare da grandi e con chi? Cioè volete ancora stare insieme o avete solo l’idea di essere voi i migliori e che gli altri vi devono delle scuse?
Nasceva e nasce tutto da una concezione di possesso dell’azienda che è difficilissima da estirpare; c’è come un passaggio culturale, di visione, da fare dentro di sé. I figli sono come l’azienda: sono nostri, ma non ci appartengono. E, in qualche modo, saremo giudicati da come abbiamo lasciato gli uni (i figli) e le altre (le imprese).
Questione di educazione, questione di visione e di una cultura d’impresa che non si ferma al possesso: ma anche questione di confrontarsi e di avere domande su quello che si fa.
Proviamoci, non siamo soli (in tutti i sensi).
Proviamoci, anche per non trasformare ogni scelta in un’ordalìa.