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Lavorare (?) in banca.

Un post di Sondra Ferri Marini su LinkedIn di sabato scorso fa emergere impietosamente la situazione del lavoro nelle banche italiane, nella fattispecie rappresentate da BNL, anche se credo che la situazione potrebbe tranquillamente estendersi, a mo’ di copia e incolla, a molti altri istituti di credito.

La signora Marini, Head Hunter Senior, attiva nel recruiting di alti profili bancari, lamenta che le “modifiche (in atto nel gruppo BNL: NdA) sono motivate esclusivamente dalla necessità aziendale di coprire della posizioni meno richieste -quasi tutte posizioni commerciali in rete- senza soffermarsi sul perché queste posizioni non ricevono alcuna candidatura: ritmi impossibili, pressioni commerciali, carenza di organico, scarsa possibilità di cambiare ruolo una volta entrati etc. etc.”.

Difficile dare torto alla Signora, oltretutto professionista del recruiting e dunque bene al corrente della situazione del settore: proprio per questo ho rilanciato il suo post, perché si riflettesse sul tema (da anni uno dei tag più usati nel blog ormai dismesso johnmaynard era esattamente “lavorare in banca”).

Perché quelle posizioni sono le meno richieste e invece la banca necessita di coprirle, perché questo divario tra domanda e offerta di lavoro? Il tema è più ampio di quello che si può pensare ad uno sguardo superficiale e riguarda non appena i mutamenti intervenuti nel modo di lavorare, ma il vero e proprio business model della banca, la concezione di sé che hanno coloro che lavorano in banca sulla base di ciò che viene detto loro dai dirigenti, dalla cultura fatta propria dal CdA, dalla stessa ragion d’essere di ogni banca.

Gli Orientamenti EBA-LOM hanno imposto, per certi versi, una presa di coscienza da parte della banca sul business model prescelto e sulla propensione al rischio, dovendo adeguare le proprie prassi non solo agli Orientamenti stessi, ma alla propensione al rischio prescelta (il RAF).
Proprio per questo temo che la questione sia strutturale; stiamo assistendo a un mutamento di paradigma del modo di fare banca, cominciato da Intesa (che reca in tutte le sue filiali l’insegna banca-assicurazione) e proseguito nel resto del sistema, dove il contemporaneo avvento dell’AI e della pandemìa ha letteralmente modificato il modo stesso di fare banca e, in finale, di lavorare in banca.

Vendere polizze, prodotti del risparmio gestito, strumenti finanziari “fabbricati” da altri, è molto più redditizio che fare prestiti, richiede meno personale preparato, richiede solo buoni venditori. Laddove serva ancora fare prestiti, l’AI spopola, disarticolando letteralmente anche il percorso professionale di chi se ne deve occupare (sarebbe interessante sapere, al riguardo). Non riesco a non pensare (guardare su LinkedIn per credere) a Banca del Veneto Centrale che, forte dei suoi superlativi risultati di bilancio, apre nuove filiali.

Non ci si può preoccupare, in una newsletter, di questioni esistenziali: ma, alla fine, la banca, ogni banca, dovrà chiedersi con quali clienti vuole avere a che fare.
Massaie che aspettano un venditore per comprare qualcosa o millennials che non solo sono nativi digitali, ma che sanno utilizzare l’AI?
A voi, banche e clienti, la scelta: io ho già dato.