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…quando dopo lo fallo nel viso loro vergogna si dipinge.

(Sarebbe San Tommaso che commenta Aristotile; nella foto, invece, sarebbe Fabio Panetta, Governatore di Banca d’Italia, che naturalmente non ha nulla di cui vergognarsi).

Altri dovrebbero farlo.

Chissà cosa provano i manager bancari, grandi e piccoli, quando decidono?

Chissà cosa hanno provato leggendo, quelli che non c’erano a Via Nazionale, le considerazioni finali di quel grande studioso, prima, e Governatore, adesso, che è Fabio Panetta?

A cosa pensano i direttori generali? A cosa pensano i capi del credito quando decidono? E gli amministratori, delegati e non, quando licenziano oppure offrono gli “scivoli” invece di diffondere, per esempio, “una forte cultura del rischio di credito”? Alice direbbe something in the air, qualche amico più cinico mi ha risposto dicendomi che non si può “diffondere” ciò in cui non si crede e/o non si possiede.

Per inciso, ma mica tanto: questa settimana avrei preferito non dover citare il caso di una donna-manager, che ha subito abusi e dopo il rientro in azienda è stata licenziata, con una buonuscita ridicola, per scarsa efficienza. Ma evidentemente il mondo delle imprese, nonostante tante belle storie che si possono raccontare, è ancora così pieno di persone che non sanno quello che fanno o, se preferite, che non sanno cosa sia veramente l’efficienza e, soprattutto, non hanno un senso per ciò che fanno, che probabilmente neppure provano vergogna per le umiliazioni che infliggono.

Il cinema, d’altra parte, è pieno di narrazioni, talvolta irridenti (Il diavolo veste Prada), talvolta più drammatiche, nelle quali i manager mostrano il loro supremo sprezzo del pericolo nello sfidare non appena la vergogna, ma ciò che si chiama buonsenso, ovvero sentire comune.

Chissà a cosa pensava il CEO di Benetton quando spiegava, presumibilmente dondolandosi sui tacchi, che “ah, sì, ci sarebbero 130 milioni di euro di perdita…”.

Chissà a cosa pensano tutti quelli, e sono tanti e tante, che solo 3 (tre!) anni fa si lamentavano con il sottoscritto, con alti lai e vagiti, “che a fare prestiti tanto non si guadagna più nulla”, che fare banca (sottinteso) è oramai un mestiere da pezzenti, che per chiudere i bilanci bisogna risparmiare sui costi operativi. Perché poi fare formazione, o investire sulla cultura del rischio, quando a tutto pensa e penserà sempre di più la AI?

Non provavano vergogna allora, non la provano neppure ora, quando i loro stessi bilanci li smentiscono; nemmeno ora, quando Panetta -leggetevi le considerazioni finali di quest’anno- afferma con giusto orgoglio, che le banche italiane sono ben patrimonializzate e redditizie. Ma lui le banche le deve vigilare, non gestire.

Così accade che di fare cultura finanziaria e gestionale per le imprese si preoccupi proprio Banca d’Italia, con i suoi progetti sulla financial literacy, con strumenti, parole, metodologia e materiali didattici ad hoc. Sono certo che la faranno bene, da quarant’anni mi nutro dei lavori del loro Servizio Studi, sempre sia lodato.

Il tema della cultura non si ferma alle imprese, magari PMI, fin troppo facile dire che hanno scarsa cultura gestionale e finanziaria (e poi lo scrivo pure io). Riguarda anche le banche, che con le imprese lavorano: il tema della cultura, del modo di vedere i rapporti, le relazioni, è il tema del senso delle cose che fai, lavoro o no che sia.

Se non avete paura a dirlo, è il senso della vita.

Ciò che alla fine fa cultura è il modo di vedere delle persone, le domande che si fanno, come sono interrogati dalla vita, dai rapporti, da quello che vivono.

Ciò che alla fine fa cultura, in banca, è il modo di vedere le cose, la vita, il lavoro, dei manager.

Tante care cose.